Il Progetto della rete internazionale delle scuole associate all’UNESCO nasce a Parigi nel 1953 con lo scopo di rafforzare l’impegno delle nuove generazioni nella promozione della comprensione internazionale e della pace sulla base di progetti pilota preparati da una trentina di scuole appartenenti a quindici Paesi membri dell’UNESCO. Attraverso l’attuazione di scambi culturali e didattici, concernenti soprattutto l’educazione alla cittadinanza, nel rispetto delle leggi costituzionali e la difesa del patrimonio materiale e immateriale e dello sviluppo sostenibile.
Il Complesso scolastico Cardinal Ragonesi, ha risposto a questa importantissima chiamata, offrendo il suo prezioso contributo per la concretizzazione di queste tematiche unescane. Quest’anno gli studenti del Liceo scientifico della prima e seconda classe, hanno deciso di aderire al progetto proponendosi di valorizzare la cultura, il territorio e le tradizioni locali della Tuscia.
Nasce “Tusciamo” che si sviluppa e integra insieme tre concetti fondamentali:
Tuscia: valorizzazione e conoscenza del patrimonio locale
Amo: l’amore per il passato e per gli antichi saperi e saper fare
Usciamo: l’apertura della cultura locale e la trasmissione di valori che vanno oltre i confini materiali,verso un’ottica globale.
Fondamentali nel processo di ricerca e di concretizzazione del progetto, le indagini in loco e la raccolta di testimonianze, a sottolineare la veridicità del lavoro.
Un incontro generazionale produttivo tra giovani e anziani, un’esperienza formativa finalizzata alla comprensione, alla conservazione e alla tutela di un bene immateriale che si tramanda nel tempo, il sapere.
La coltivazione e la lavorazione della canapa, i canti e le filastrocche dei contadini, le tradizioni culinarie nascoste dietro le antiche dispense delle nonne di paese, questo e molto altro ancora definisce il ritratto di Tusciamo.
In un mondo iperglobalizzato, abbiamo voluto scavare nelle nostre radici e disegnare la nostra identità culturale per raccontarla al Mondo.
Del resto…
“Un popolo che ignora il proprio passato non saprà mai nulla del proprio presente”
I.Montanelli
La globalizzazione ci permette di comunicare con tutto il mondo. Possiamo trovare qualsiasi prodotto ovunque, dalla pizza oltreoceano al sushi in Italia, a discapito dei prodotti tipici e, più in generale, delle tradizioni di ogni zona. E infatti, la globalizzazione, “avvicinando il mondo”, tende ad omologarlo, ad avvicinarci.
È proprio da queste riflessioni che nasce il nostro progetto, basato sulla volontà di riscoprire, tramite l’analisi di fonti scritte e orali, dirette e indirette, le tradizioni della nostra area di appartenenza, la Tuscia. Un lavoro sul campo volto alla riscoperta e alla salvaguardia della nostra identità e delle nostre radici.
Allo svolgimento di questo progetto hanno partecipato i sedici alunni del biennio del liceo scientifico “Cardinal Ragonesi”.
Uscire vuol dire aprirsi al mondo, conoscere cose nuove…
Ma anche cose “antiche” che
a volte vengono tramandate,
a volte vengono perse… Usciamo!
Io Amo il territorio in cui vivo,
voglio conoscerlo,
ndagando anche nel suo passato,
nelle tradizioni e caratteristiche che in parte
sono purtroppo già andate perdute
ed in parte possono essere ancora conservate o recuperate.
Dobbiamo essere curiosi!!
Questo non sconvolge sicuramente la quotidianità però ci rende più consapevoli di tante cose, ci apre la
mente ed il cuore.
Allora andiamo, conosciamo la Tuscia.
A proposito di quotidianità…
Qual’era la giornata dei nostri nonni?
Quali le loro occupazioni?
Come vivevano?
Cosa mangiavano?
E quando erano bambini, come giocavano?
Cosa cantavano ?
Come passavano il tempo?
Indagheremo!
Noi ragazzi,
ascoltando con attenzione ed interesse le persone anziane ,
abbiamo raccolto tantissimo materiale su cui lavorare.
Un patrimonio orale che inevitabilmente finirà col perdersi
se non lo “fissiamo” in qualche modo.
Sono veramente molte le cose da conoscere.
I dati e le notizie raccolte sono tantissime anche perché il territorio della Tuscia, che deve il suo nome agli Etruschi è un territorio compreso tra Roma, la Toscana, il Mar Tirreno e l’Umbria, seppur non molto esteso, possiede caratteristiche, tradizioni, peculiarità diverse addirittura di paese in paese.
Tuttavia aleggia un “quid” che la rende unica, vuoi l’ambiente, vuoi le chiese, vuoi il tufo, vuoi la Storia, vuoi i Papi, vuoi le colture,vuoi la” ruralità”.
Stamattina ci svegliamo presto, andiamo nella macchia di Corneto, attuale Tarquinia, passeggiando troviamo il Ferlengo, un fungo tipico. Lungo la strada incontriamo una vecchietta che ci dice come cucinarlo e ci invita nel suo casale per il pranzo. Ci offre un po’ di spezzatino alla “butteresca” e poi ci consiglia di andare al ponte Clementino per comprare del pesce fresco dai pescatori.
Per arrivarci seguiamo l’antico acquedotto romano, appena arrivati troviamo le donne intente ad intrecciare le reti da pesca. Passeggiando sul lungo mare vediamo dei bambini che hanno smesso di giocare per mangiare il “diomeneguardi” una specie di pizza dolce con spezie e uvetta. Si è fatta sera, con il baccalà prepariamo delle frittelle per la cena.
Dopo aver mangiato andiamo a veglia e sentiamo una poesia:
<<O Villa del Silenzio,
lassù, abbracciata dalle antiche mura,
fra il trifoglio e gli ulivi
pare t’abbia creata la natura!
E la natura, da gran miliardaria,
frulla le stelle in aria,
che grondano sul mare
tra fuochi di lampare.
La torre che ti fa da sentinella
con un raggio di luna s’incorona
e sembra in lontananza un’altra stella
Ma appena vedo là nella vallata
nelle strade contorte
le luci del baccano e della morte,
sento che più profondo, e guardo in alto
mentre va sempre più precipitando il mondo>>
Si è fatto tardi, andiamo a dormire, chè domani è già ora di ripartire…
All’alba partiamo per Cellere, dove alle quattro del mattino passa nelle vie del paese il “chiamarino” per svegliare chi deve andare a lavorare. Di corsa si fa colazione col panunto e un bicchiere di latte. Le donne prima d’uscire mettono il guazzarone (una specie di grembiule che ripara dall’erba bagnata) per andare a cogliere le olive. E la “compagnia” parte per lavorare nei campi. Il pranzo è semplice, consiste nella “buca”, un orlo di pane al quale è stata tolta la mollica ed è stato riempito con la cicoria “trascinata” (cotta in padella), e per terminare una mela.
I butteri (uomini a cavallo) guidano le mandrie di vacche maremmane, con i cosciali in pelle, il cappello ed un frustino. Mentre i contadini continuano a lavorare fino al tramonto, noi andiamo a visitare il Pelagone un piccolo ma molto profondo laghetto formato dal fiume Timone.
Tramonta il sole e tutti rientrano a casa dove nel camino acceso, dentro al paiolo bolle il “cipollato” (misto di verdure) e profuma sulla tavola il “mischietto” piante selvatiche condite in insalata, che raccolgono le donne nei campi. Dopo aver cenato, attorno al focolare il nonno racconta una storiella al nipotino:
“La vicitaria del ciocco tinto”.
Dice cantalenando:
“la vicitaria del ciocco tinto è bella e dura un po’ vuoi che te la racconto si o no?” “Si”:“Si non si può dir perché la vicitaria del ciocco tinto è bella e dura un po’, vuoi che te la racconti si o no?” “No”: “No non si può dire perché la vicitaria del ciocco tinto è bella e dura un po’ vuoi che te la racconti si o no?”
Ripetendo le strofe fino a stancarsi.
Il babbo, con altri uomini, racconta invece dell’incontro avventuroso con i briganti nella macchia mentre era andato a far legna. A quel punto, il piccolo spaventato si lascia cullare dalla mamma che per tranquillizzarlo gli canta una ninna nanna.
Al canto del gallo si risveglia vicino il paese di Montefiascone. Gli uomini vanno nelle campagne a lavorare o preparano le barche per andare a pescare sul lago di Bolsena. Le donne lavandaie invece si dirigono al “lavatoio pubblico” per lavare i panni. Quando arriva l’ora di pranzo vediamo le mogli portare ai mariti la pizza fritta con sopra patate pecorino e pepe. Passeggiando per la rocca nel tardo pomeriggio oltre ad ammirare lo splendido panorama del lago di Bolsena, possiamo incontrare gli uomini a veglia seduti su panche in legno che sorseggiano il loro buon vino, l’”Est
Est Est”. Il buon olio dorato delle olive arricchisce la bruschetta.
Nell’aria si sentono buoni profumi, sono le donne che per la cena preparano il brodo con la “tinca” o la minestra di ceci con le castagne.
Mentre rientrano gli ultimi lavoratori sopra l’asinello, ci si prepara per il desinare.
Finita la cena le mamme mettono a nanna i figli e sentiamo dalle case il loro canto: “Fate la ninna, fate la nanna, fate ‘n bel sonno figli belli de sto monno. Fate la ninna, fate la nanna, fatelo’n bel sonno e rivatece fino a giorno”.
Nella zona dei Monti Cimini una delle attività principali era la coltivazione della canapa, grazie alla ricchezza dei corsi d’acqua, da dare il nome a uno dei principali centri urbani, Canepina.
La coltivazione consisteva principalmente in: Semina, Estirpazione, Essiccazione, Macerazione, Asciugatura, Scavezzatura, Gramolatura, Pettinatura, Filatura, Aspatura, Dinapanatura, Incannatura, Orditura e Tessitura.
SEMINA: La semina avveniva tra marzo e aprile in un terreno posto vicino ai corsi d’acqua possibilmente pianeggiante e fresco. La terra veniva prima preparata e concimata con il sovescio (tecnica colturale) e lo stabbio (concime naturale animale) in seguito arata e seminata a spaglio (distribuendo a mano).
ESTIRPAZIONE: Ad agosto e settembre si estirpavano le piante. Prima il maschio che maturava in anticipo e poi la femmina che conteneva i semi. Dopo aver legato le piante a formare dei mazzi di lunghezza simile si tagliavano le radici e i ciuffi degli steli.
ESSICCAZIONE: I mazzi di Canapa venivano posti poi sul terreno al sole mossi e rigirati per circa una settimana. Quest’operazione non necessaria alla macerazione, era effettuata sempre con i mazzi delle piante femmina da cui successivamente si ricavavano i semi (per le future semine).
MACERAZIONE: I mazzi di canapa secchi oppure ancora verdi, venivano legati a formare dei fasci più grandi e successivamente trasportati e immersi in apposite vasche dette in dialetto “VORICHE”, immersi completamente per 5/7 giorni al fine di far fermentare e marcire le piante.
ASCIUGATURA: A macerazione avvenuta, i fasci di canapa venivano riportati sui terreni della coltivazione, aperti solo da un lato e posti come capanne ad asciugare al sole. In caso di pioggia, essi venivano protetti sotto apposite tettoie costruite a tale scopo.
SCAVEZZATURA: Per liberare la fibra dalle parti legnose, i mazzi di Canapa venivano successivamente battuti con un legno su un supporto particolare avente al centro un canaletto detto scavezzatrice o in dialetto “MACCOLATOIO”.
GRAMOLATURA: Con quest’operazione si separava invece il tiglio dalle parti legnose creando dei filamenti di fibra più o meno morbidi e lucidi. Lo strumento usato in quest’operazione era la gramola o in dialetto “MANCEVOLA”.
PETTINATURA: Questa era l’operazione in cui si liberavano le fibre dalle impurità. Oltre a pulire definitivamente le fibre, la pettinatura le rendeva parallele e divideva quelle troppo grosse. La stoppa che era la fibra più grezza era già in questa fase utilizzabile per fare i sacchi.
FILATURA: Questa operazione veniva effettuata con la rocca e il fuso, oppure con il filatoio a ruota (filarello). La fibra di canapa veniva arrotolata, facendo ruotare su se stesso il fuso. La filatura richiedeva abilità e destrezza e veniva effettuata dalle donne.
ASPATURA: In seguito all’avvolgimento del filo sul fuso oppure sulla bobina del filatoio, si eseguiva l’operazione di aspatura con un attrezzo chiamato aspo, in dialetto “VODDARELLO”, che aveva lo scopo di liberare gli attrezzi dal filo e creare matasse.
DIPANATURA: Dopo il lavaggio delle matasse, si passava ai gomitoli. Quest’operazione chiamata “DIPANATURA” avveniva con uno strumento chiamato arcolaio in dialetto “DEPINATORO”. Su di esso veniva posta la matassa che si svolgeva mano a mano che il filo si arrotolava attorno ad un altro tipo di fuso.
INCANNATURA: Questa operazione permetteva di realizzare “le spolette” necessarie all’orditura e alla filatura.
ORDITURA: Effettuata preliminarmente alla tessitura. Consentiva di realizzare l’ordito, ossia l’insieme di fili verticali che dovevano comporre il tessuto e su cui s’intercettavano i fili orizzontali di trama. Quest’operazione richiedeva molto spazio.
TESSITURA: Questa era la parte finale della lavorazione della fibra tessile e veniva effettuata con il telaio.
Durante ognuna di queste fasi della lavorazione, adulti e bambini parlavano, giocavano, cantavano:
<<Tutti mi dicon
Maremma, maremma
Ed a me sembra
Una maremma amara.
L’uccello che ci va
Perde la pena,
il giovin che ci va
perde la dama.
Chi va in maremma e lascia
la montagna,
perde la dama e nulla
ci guadagna.
Chi va in maremma e lascia
l’acqua bona,
perde la dama e più
non la ritrova
Chi va in maremma e lascia
l’acqua fresca,
perde la dama e più
non la ripesca.
Sia maledetta
maremma, maremma
maledetta maremma
e chi l’ama.
Tutto mi trema il cor
quando ci vai,
per lo timor
che ci vedrem più mai.>>
I grandi raccontavano fatti ed eventi realmente accadute od anche storie fantasiose modificando la realtà o inventando completamente. Le donne confabulavano tra di loro di chissà cosa, si facevano “confidenze”, tramandavano vecchie ricette di cucina, di generazione in generazione con consigli nelle preparazioni o di ingredienti aggiuntivi “segreti”.
Le Ricette tradizionali
I piatti tipici erano caratterizzati dalla semplicità a “kilometro zero” della tradizione popolare.
Di seguito alcuni esempi:
“FIENO”: Pasta a base di acqua e farina molto fina, famosa per la cottura veloce, spesso accompagnata con ragù di varie carni.
“CECILIANI” o “PASTA DE FERO”: Pasta a base di acqua e farina con un foro al centro, spesso accompagnata con una passata di pomodori.
“SPAGHETTI RICOTTA E CANNELLA (O PEPE)”: Pasta comune con l’aggiunta della ricotta (spesso molto salata) e della cannella; esiste anche una variante con il pepe al posto della cannella.
“MOZZARELLA FRITTA”: Mozzarella tagliata a dadini e avvolta in un misto di farina e pangrattato, successivamente immersa nell’olio extra vergine d’oliva locale e poi servita bollente.
“TOZZETTI DI NOCCIOLE”: Dolci con nocciole (e/o cioccolata).
“CIAMBELLETTE ALL’ANICE”: Dolci di forma sferica a base di Anice, spesso degustati con del vino locale.
I bimbi giocavano nei pressi, con semplici oggetti domestici, tipo coperchio e mestolo.
I più grandicelli si sfidavano per mostrare la loro bravura gareggiando nella corsa, nel salto o con scioglilingua.
Ecco, di seguito, un poesia in dialetto sorianese su un altro gioco popolare, i quattro cantoni.
Essa è un evidente esempio delle tradizioni linguistiche dell’area cimina che, senza dubbio, rappresentano uno dei tratti distintivi dell’intera Tuscia.
I Giochi
Sui Monti Cimini un famoso gioco tradizionale era “MAZZA E PIZZÒ”, il gioco consisteva nello spostare un pezzo di legno con una mazza e cercare di fare centro in un obiettivo disegnato.
Un altro gioco molto diffuso sui Monti Cimini è
“LA GARA DI CARRETTELLE” che consiste nello scendere da alcune discese a bordo di mezzi rudimentali costruiti in legno, le “CARRETTELLE”.
Il gioco dei “RUZZOLONI” consisteva invece nel lanciare dalla cima delle colline delle grandi forme di formaggio che arrivavano fino a valle.
I giochi più comuni e più amati dai paesani sono: l’albero della cuccagna , la corsa degli asini, i giochi dei bottoni , braccio di ferro, corsa con l’uovo, corsa con i sacchi.
L’albero della cuccagna, dove una coppia di buoi doveva trasportare degli alberi molto alti fino alla piazza. La corsa degli asini consisteva nel radunare tutti gli asini cavalcati dal padrone che dovevano percorrere un tragitto non troppo lungo; chi arrivava per primo era l’asino del giorno.
Nel gioco dei bottoni venivano raccolti insieme vari bottoni e lanciati nella direzione di un quadrato disegnato sul terreno. La vincita era costituita dai bottoni che ognuno riusciva a spedire nel quadrato.
Un tempo ogni occasione andava bene per misurare la propria forza fisica con quella degli altri; e così, un tavolo, due sedie, due mani ben strette, avambracci resistenti ed un po’ di muscoli erano gli ingredienti per stabilire chi era il più forte nel gioco del braccio di ferro. Consisteva appunto nel riuscire a piegare la resistenza dell’avversario spingendo il suo avambraccio fino a toccare la base di appoggio.
La corsa dell’uovo era una gara di velocità, generalmente tra donne, provvisti di un cucchiaio con dentro un uovo. Inutile spiegare che la vittoria andava a chi tagliava il traguardo per primo con l’uovo tutto intero, naturalmente.
La corsa con i sacchi era un’altra tipologia di gara condizionata dalla presenza intorno agli arti inferiori dei partecipanti di un sacco che ne limitava il movimento. Il sacco si protrae fino all’altezza della cintura ed è sorretto con le mani dello stesso concorrente.
E vero che:
“Un popolo che ignora il proprio passato non saprà mai nulla del proprio presente”
Indro Montanelli
“Studia il passato se vuoi prevedere il futuro”
Confucio
Ma ci siamo “dilettati” nel presentarvi solo una goccia dell’immenso mare che è il nostro passato, ma anche di tutti.
Vi possa piacere.
GRAZIE DELL’ATTENZIONE NELLA LETTURA.
BIBLIOGRAFIA
Il lavoro dei contadini. Cultura materiale e artigianato rurale in Italia e nella Svizzera italiana e retoromanza, Longanesi & C., Milano 1980, vol. II
Tuscia in tavola, Italo Arieti, Primaprint,Viterbo.
La canapa: coltura, coltivazione commercio, U.Somma, L.Cappelli,1923
I riti dell’acqua e della terra: nel folclore religioso, nel lavoro e nella tradizione orale: Paolo Fortugno, Sette città, 2007
SITOGRAFIA
www.infocanino.it
www.canapaindustriale.it
www.genitronsviluppo.com
http://freeweed.it/quando-italia-si-coltivava-canapa/
BISCETTI LAURA
DE ANGELIS ANDREA
MODICA GAETANO
MODONI MARCOS
MORELLI LORENZO
BADINI MARIA SOFIA
CARLANI ANNAPIA
DANTI FRANCESCO
DE ANGELIS ENRICO
FERRUCCI DIEGO
LUNEDINI LORENZO
PAPI AUGUSTO
PARENTI FRANCESCO
PASCUZZI ALESSIO
PESCIAROLI MARTINA
RICCI MARTINA
PROF. SABBATINI ALESSANDRO
PROF. SSA PERONI ELISABETTA